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Sul filo della memoria: cercando Natsume Sōseki a Tokyo

 

 

Magari non avete ancora letto un suo romanzo, ma sicuramente ne avrete sentito parlare e forse l’avrete anche visto su qualche vecchia banconota da 1000 yen. Natsume Sōseki è una delle figure preminenti della letteratura giapponese moderna. Nato al tramonto dell’era Tokugawa, Sōseki fu la voce letteraria dell’epoca Meiji, quel periodo che vide la trasformazione del Giappone da stato feudale, barricato nei suoi confini per oltre due secoli, in moderno paese industriale. Un momento di transizione in atto tra Otto e Novecento di cui Sōseki assorbì le contraddizioni, come la costante oscillazione tra tradizione e modernità riflessa anche nella sua formazione intellettuale: da un lato l’eredità della cultura popolare del periodo Edo e i classici cinesi, dall’altro lo studio della letteratura inglese. La cultura occidentale esercitava per certi aspetti una fascinazione che ammaliava, ma destava anche inquietudine e preoccupazione, sentimenti che si riversano nelle figure soltarie e malinconiche ricorrenti nelle opere di Sōseki.

Banconota 1000 yen (collezione privata)

 

Shinjuku al tempo di Sōseki

“Sembrava che tutto venisse distrutto, ma allo stesso tempo che tutto fosse in via di costruzione”, scrisse in Sanshirō. Tra Otto e Novecento le strade di Tokyo erano in brulicante cambiamento, un cantiere di nuove costruzioni, nuovi mezzi di trasporto, e anche nuovi rumori: al crepitio delle ruote dei risciò sui selciati si accostava lo sferragliare dei primi tram e le note pizzicate dei biwa riecheggiavano nell’aria assieme alle risonanze metalliche dei grammofoni. Una fisionomia urbana le cui tracce sono quasi impossibili da ritrovare oggi: il nucleo storico della città infatti fu raso al suolo due volte, prima dal grande terremoto del Kantō, poi dai bombardamenti incendiari della seconda guerra mondiale. A salvarsi dalle ceneri del passato è la memoria storica, mantenuta viva dallo Shinjuku Historical Museum (www.regasu-shinjuku.or.jp/rekihaku/ sito disponibile solo in giapponese), una cronologia del quartiere dal Paleolitico al periodo Shōwa in cui non poteva mancare una sala dedicata alle numerose figure che ne hanno animato la vita letteraria, tra cui anche Sōseki.

Il viaggio nella vita e nelle opere di Sōseki può cominciare proprio da Shinjuku: dalla fermata Waseda, in 10 minuti si raggiunge il museo dedicato allo scrittore, immerso in un quartiere di piccoli templi, negozietti e scorci di pacifica vita residenziale, un’area da lungo tempo legata alla famiglia Natsume, tanto che la moderna topografia ne conserva ancora riferimenti, per esempio la Natsume-zaka doori lungo la quale si trova il Sōseki Sanbo Memorial Museum. Il museo è stato inaugurato nel 2017 dove un tempo sorgeva la “Sōseki Sanbo”, in cui lo scrittore visse gli ultimi nove anni della sua vita, dal 1907 al 1916. Qui scrisse la maggior parte delle opere più famose, come Sanshirō, Sorekara (“E poi”), Kokoro (“Il cuore delle cose”) e l’incompiuto Meian (“Luce e oscurità”). Anche in questo caso l’edificio originale non esiste più, distrutto come mezza città durante la seconda guerra mondiale, ma in alcuni ambienti di questa costruzione moderna si cerca di ricreare l’atmosfera originaria del tempo che fu. La Sōseki Sanbo era un edificio a un solo piano con un mix di ambienti in stile giapponese e occidentale e un corridoio esterno affacciato sul giardino, rinfrescato dall’ombra di un grande albero di banano giapponese. Ogni giovedì vi si teneva il Mokuyokai, un salotto letterario in cui Sōseki si attorniava di discepoli e ammiratori per parlare di letteratura, a cui partecipava anche un giovane Ryūnosuke Akutagawa. Chiacchiere vivaci che possiamo immaginare nel soggiorno ricostruito, pieno di libri ammonticchiati ovunque. Oltre al giardino su cui svetta un monumento al gatto defunto, il percorso espositivo mostra autografi, prime edizioni, fotografie e oggetti personali come un nagajuban, indossato dallo scrittore, su cui si intravedono ancora tracce di inchiostro. A fare da filo conduttore per tutto il museo è il tema del gatto, ispirato ovviamente a uno dei più noti romanzi di Sōseki, Wagahai wa neko dearu (“Io sono un gatto”), riprodotto su tutte le superfici e nella luminosa caffetteria al piano terra.

Poco oltre il museo si trovava anche la casa natale dello scrittore, all’epoca nel distretto Ushigome-Babashita-Yokomachi (oggi Kikuichō 1-chome). L’edificio non esiste più, ma una stele in granito e un cartello informativo ne conservano la memoria. Curioso che la parabola della vita di Sōseki, dopo alcune tappe per il Giappone e un soggiorno in Inghilterra, si sia inaugurata e conclusa più o meno nello stesso luogo, come un ideale ritorno all’origine.

Stele che ricorda la casa di Natsume Sōseki nel quartiere di Sendagi (iStock)

 

In un quarto d’ora a piedi si raggiunge Kagurazaka, spesso descritta nel romanzo E poi:

Quando arrivò a Kagurazaka, la strada deserta, fiancheggiata da case a due piani, gli parve tanto lunga e stretta da chiudersi in fondo. Giunto a metà della salita, all’improvviso sentì una vibrazione. Doveva essere il vento che soffiava contro la falda dei tetti, pensò. Si fermò e levò lo sguardo verso gli spioventi scuri, poi lo spostò verso il cielo, e in quel momento fu sopraffatto da una sorta di terrore: lo sbatacchiare di porte, shōji e vetri si faceva sempre più violento... Allora Daisuke capì − era un terremoto!

Dell’antico quartiere di piaceri che fu durante il periodo Edo resta oggi l’atmosfera elegante e intima, soprattutto addentrandosi nei vicoletti stretti e lastricati. Qui Sōseki veniva a cena o per fare acquisti, per esempio da Somaya (www.soumaya.co.jp | sito disponibile solo in giapponese), un antico negozio di cancelleria ancora esistente: dall’esterno passa quasi inosservato e sembra tradire la sua storia secolare che racconta di un antichissimo produttore e rivenditore di carta sin dal XVII secolo. Qui facevano scorte non solo la casa imperiale, ma anche famosi letterati come Takuboku Ishikawa, Tsubouchi Shōyō e appunto Sōseki.

Un gatto nella Yanesen

Yanaka Ginza (iStock)

 

Dopo due anni sofferti in Inghilterra, nel 1903 Sōseki torna in Giappone e prende il posto di Lafcadio Hearn all’Università imperiale di Tokyo (oggi Tōdai). In questo periodo vive nell’area di Sendagi, che con i quartieri Yanaka e Nezu forma la famosa “Yanesen”, un’area suggestiva che trasuda d’atmosfera Shōwa, in cui sopravvivono ancora costruzioni antiche. Della casa in cui Sōseki visse alcuni anni però non resta che una targa commemorativa (2-chōme-20-7 Mukōgaoka), un soggiorno breve, ma non meno significativo: fu infatti nell’estate del 1904 che un gatto randagio iniziò ostinatamente a intrufolarsi nella casa dello scrittore, il quale prese a dargli da mangiare. Presto il gatto divenne uno di famiglia tanto che quando l’editore della rivista Hototogisu chiese a Sōseki di scrivere un romanzo, l’ispirazione se la trovò proprio sotto gli occhi: il felino divenne il protagonista narratore di Io sono un gatto che con sguardo ironico e scettico analizza i comportamenti umani e racconta le bizzarre frequentazioni del professor Kushami, una caricatura di Sōseki e dei suoi amici. Il gatto nero fu quindi un portafortuna per l’esordio letterario di Sōseki e seguì lo scrittore anche nei vari traslochi, tra cui l’ultima casa (dove oggi c’è il museo) in cui morì nel 1908, ricordato da un monumento commemorativo nel giardino.

Non molto distante si trova il Nezu Jinja, uno dei templi più affascinanti di Tokyo, soprattutto in primavera quando esplode di colori per il festival delle azalee. Costruito nel 1705 secondo lo stile del santuario Tōshōgu di Nikkō, si compone di vari padiglioni e tunnel di torii miracolosamente scampati alle devastazioni che nel Novecento hanno distrutto la città. Era uno dei templi frequentati da Sōseki, tanto che vi si trova una pietra, la Bungo Ikoi no Ishi, su cui, secondo un aneddoto che sa di leggenda, sedeva lo scrittore meditabondo.

Torii al Nezu Jinja (foto - Alessandra Mastroleo)

 

Cercando Sōseki per Bunkyō-ku

Un altro luogo nei dintorni legato a Sōseki è l’università Tōdai, dove si laureò e poi insegnò letteratura inglese. Qui sono ambientate alcune pagine del romanzo Sanshirō, tra cui una delle scene più emblematiche, l’incontro romantico tra Sanshirō e Mineko sulle sponde del laghetto che oggi è noto come “Sanshirō Ike”. Il giardino nel periodo Edo faceva parte come tutto l’attuale campus della residenza del clan Maeda: una traccia sopravvissuta di quell’epoca è l’Akamon, grande portale rosso scarlatto costruito nel 1827, sotto cui deve essere passato spesso Sōseki, visto che agli inizi del Novecento fungeva da ingresso all’università.

Akamon. Storico "portale rosso" dell'Univesità di Tokyo (iStock)

 

Sempre nel quartiere Bunkyō, poco distante dalla fermata di Nippori c’è la pasticceria tradizionale Habutae Dango (https://habutae.jp/ sito disponibile solo in giapponese), perfetta per una pausa in tema perché frequentata anche da Sōseki e dall’amico e poeta Masaoka Shiki che abitava poco distante (nello Shiki An, oggi un museo a lui dedicato). Come si deduce dal nome, la specialità della casa sono i dango, di cui evidentemente Sōseki era ghiotto, visto che ne parla anche in Io sono un gatto:

Suggerisco il parco di Ueno. Potremmo mangiare i dango di Imozaka. Li ha mai assaggiati, professore? Li provi una volta anche lei, signora. Sono morbidissimi e costano poco.

Il negozio originale, oggi incastonato tra palazzoni moderni, si trova ancora lungo la via Imozaka: attenzione a non confonderlo con la filiale aperta nella stazione di Nippori.

Tra le lapidi del cimitero di Zōshigaya

 

Tomba dello scrittore Natsume Sōseki (foto - Alessandra Mastroleo)

 

Infine un ultimo saluto allo scrittore nel luogo del suo estremo riposo: il cimitero di Zōshigaya si trova nel quartiere Toshima, fermata Higashi Ikebukuro. Fondato nel 1874, è luogo di sepoltura di altri letterati illustri tra cui Lafcadio Hearn, Izumi Kyōka e Nagai Kafū. La tomba di Sōseki non è indicata ma riconoscibile dagli ideogrammi di “Natsume” (夏目) alla base (all’ingresso si può trovare una mappa del cimitero), sorvegliata da felini vagabondi che si aggirano tra le lapidi, discendenti dell’arguto narratore di Io sono un gatto. Perdendosi tra i vialetti silenziosi, sotto le chiome di ginkgo, vi ritroverete improvvisamente immersi nella scena de Il cuore delle cose in cui il protagonista passeggia accanto al maestro malinconico che si lascia andare a sibilline rivelazioni sul passato:

Ad una estremità del cimitero, dove una grande pianta di ginkgo si ergeva quasi a nascondere il cielo, lui guardò in alto, verso la cima, ed esclamò: «Tra poco sarà bella! Diventa completamente gialla e la terra, sotto, si copre di foglie dorate!» Una volta al mese passava inevitabilmente in quel luogo. Sul lato opposto del cimitero, un uomo stava preparando nuove tombe livellando il terreno accidentato; ci guardò mentre si riposava con le mani sulla zappa. Noi deviammo a sinistra e ci ritrovammo sulla strada. Io non avevo una meta precisa, per cui seguii il maestro. Era più silenzioso del solito, eppure non mi sentivo troppo a disagio, e camminai lentamente con lui. «Ritorna subito a casa?» «Sì. Non devo andare da nessun’altra parte». Scendemmo la collina in silenzio, verso sud. «Lassù c’è la tomba della sua famiglia?» chiesi di nuovo. «No». «È sepolto lì qualche suo parente?» «No». Non aggiunse altro. Anch’io, a quel punto, troncai il discorso. Poi, dopo un po’, ritornò inaspettatamente sull’argomento. «C’è la tomba di un mio amico». «Tutti i mesi va a fargli visita?» «Sì». Quel giorno non disse altro.

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